La musica in guerra | Matteo Lion

Ognuno vive nella propria bolla.
Ognuno di noi realizza le cose quando riescono a infiltrarsi all’interno delle nostre bolle ermetiche.
Solo quando Björk ha cancellato il suo spettacolo “Björk Orkestral” a Mosca previsto a giugno, io mi sono davvero chiesto “cosa cazzo sta succedendo?” rispetto all’invasione Russa dell’Ucraina.
Ovviamente avevo visto i notiziari e provavo pena per il popolo ucraino. Ma ero ancora convinto (… o i media cercavano di convincermi) che l’invasione Russa potesse risolversi in tempi brevi, nel giro di qualche settimana.
Nella mia visione delle cose la musica prescinde da tutto, riunisce sul serio le persone, la musica è un’arte sublime, una importante forma di aggregazione. Nel mio immaginario un concerto di Bjork poteva smuovere le coscienze più di un cartello scritto a mano e sbandierato per pochi secondi da una giornalista dissidente.

Sono consapevole che la musica riesce a fermare una guerra solo nei film.
Come in Mars Attack! di Tim Burton dove la frequenza e il ritmo country del pezzo “Indian Love Call” di Slim Whitman riesce a far esplodere le teste degli invasori alieni.

La musica nelle guerre precedenti ha sempre avuto un ruolo importante.
Glenn Miller diresse durante la seconda guerra mondiale la Army Air Force Band che suonava nelle caserme americane in Europa per tenere alto il morale dei soldati.
Le loro canzoni erano un ponte spirituale, una sorta di telefono senza fili, tra chi era al fronte e chi era a casa.
E infatti un generale definì la musica di Miller “il più grande aiuto per il morale dei soldati sul fronte europeo dopo una lettera da casa”.
Insomma durante la seconda guerra mondiale la musica risuonava di patriottismo.

Durante la guerra in Vietnam le canzoni erano in grado di esprimere la rabbia e la confusione che una incomprensibile guerra generavano in una vasta fetta di americani.
Il testo di “Blowin ‘in the Wind” di Bob Dylan è stato davvero portato da un vento nuovo ed è stato più contagioso del Covid19. La musica, in quel caso, risuonava di antagonismo e colmava un vuoto.
Infatti Hollywood produsse film che parlavano del Vietnam solo dopo il Vietnam. E l’informazione dei notiziari era un campo minato in cui non si poteva uscire dai binari delle poche notizie ufficiali.

Già durante la guerra del golfo la musica non riuscì ad essere così identitaria.
Quella fu la guerra della TV con le immagine agli infrarossi che riprendevano i bombardamenti notturni.
E infatti, non a caso, in quell’occasione si ricorda il tentativo di ravvivare le coscienze ripescando il vecchio pezzo scritto da John Lennon e Yoko Ono “Give Peace A Chance” per realizzarne una versione corale, sulla falsa riga di Usa for Africa, con Lenny Kravitz, Peter Gabriel, Tom Petty, MC Hammer, Bonnie Raitt, LL Cool J, Run Dmc, Cindy Lauper, Dave Stewart, Iggy Pop e molti altri.
Insomma tanto rumore per nulla.

Spiace dirlo ma in questa guerra la musica è stata declassata a colonna sonora da usare nei social.
Sono i social il media che parla alla gente. Proprio come lo facevano Joan Baez e Bob Dylan negli anni ’70.
La guerra in Ucraina è stata definita la “prima guerra su TikTok’, fonte di informazione per un miliardo di utenti mensili tra i 13 e i 20 anni.
Gli stessi che dovrebbero essere anche “appassionati di musica” se consideriamo che su Spotify il 34% degli abbonati è di età compresa tra i 18 ed i 24 anni.
Ma poi dobbiamo capire che Spotify conteggia come “ascolto di un brano” quando un utente ascolta un pezzo per almeno 30 secondi.
Ecco spiegato meglio il rapporto succedaneo della musica ai ritmi e alle regole imposte dai social.
I social sono diventati poi anche il microfono aperto di soldati e civili che raccontano la guerra in tempo reale, come faceva la Fallaci o gli inviati di guerra.
I social sono stati usati anche da molti musicisti che hanno suonato a favore di telecamera, come Denys Karachevtsev, violoncellista diplomato al Conservatorio di Kiev che ha eseguito alcune parti della Suite per violoncello n. 1 di Bach davanti alle rovine della città di Kharkiv.

In America l’industria discografica si è subito prodigata per comporre una canzone-simbolo.
E hanno prodotto una canzone piena di retorica come “Tears for Ukraine” di Billy Craig che ha un testo davvero imbarazzante nella sua ovvietà: “Quello che sto vedendo ora è così ingiusto, così dannatamente folle. Le mie preghiere stasera includeranno lacrime per l’Ucraina”.

Ma anche nell’epicentro della guerra la musica è altrettanto prevedibile. Se vi prendete la briga di ascoltare in streaming alcune radio ucraine vi imbatterete spesso in una canzone ska della band Mandry piena di luoghi comuni su una guerra che si deve vincere a tutti i costi.
Insomma le canzoni stanno diventando così ovvie e didascaliche che si capisce perché siano usate come colonne sonore per le Stories su Instagram o video dai montaggi sincopati su TikTok.

I social esplodono quando c’è un trend che divide.
Ogni pagina on line in cui le persone interagiscono è diventata, da tempo, un campo di battaglia.
Le barricate virtuali erano già state scavate sui social. Si è sempre stati partigiani anche quando si doveva commentare l’assenza di Miranda nel sequel di Sex and the city, figuriamoci per una guerra vera.
Sui social bisogna solo decidere (o scoprire) da che parte stare e sparare verso l’avversario il più velocemente possibile.
E anche la musica può essere un proiettile.
Io sono rimasto sorpreso quando ho letto che su Spotify alcuni utenti hanno caricato delle playlist con titoli palesemente politici come “Canzoni da ascoltare mentre si invade l’Ucraina”, “L’Ucraina ha bisogno di essere bombardata” e “Canzoni che colpiscono più duramente di La bomba russa contro l’Ucraina”.
Ovviamente sono stati rimossi.
Ma per questa guerra ancora non c’è una canzone simbolo.
I social di oggi sono le radio di ieri.
I meme di oggi sono le canzoni di ieri.
Probabilmente le canzoni più ascoltate di queste settimane, grazie alla visioni dei curiosi su Youtube, sono quelle usate per le esibizioni del presidente ucraino Zelensky a Ballando con le stelle quando partecipò alla trasmissione TV.

Anche se la musica non riesce più a smuovere le coscienze, ci consola che almeno serva a fare cassa.
Gli Arcade Fire hanno raccolto in una settimana 100.000 dollari grazie a quattro concerti organizzati per sostenere l’Ukraine Relief Fund.
E stasera, 5 marzo, a Bologna sempre per raccogliere fondi per Save the Children e i bambini ucraini si terrà un concerto con La rappresentante di lista, Elisa, Brunori Sas e altri.
La fine del mondo è una giostra perfetta. Mi scoppia nel cuore la voglia di festa. È la fine del mondo sopra la rovina, sono una regina. Ma-ma-ma Ma non so cosa salvare” si canterà in piazza. Ma speriamo, appunto, che sia funzionale a raccogliere tanto denaro.

Se invece cercate una prospettiva diversa che vi aiuti a capire che anche questa guerra non sarà né la prima né l’ultima, riascoltate Battiato:
“Un tempo si uccidevano i cristiani e poi questi ultimi
con la scusa delle streghe ammazzavano i pagani
Ave Maria
E perché il sol dell’avvenire splenda ancora sulla terra
facciamo un po’ di largo con un’altra guerra”.

Matteo Lion

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