Anche la follia merita i suoi applausi | Matteo Lion

Siamo solo a Marzo ma in questo 2024 abbiamo già un grande disco, “Filthy Underneath” di Nadine Shah.

Il disco racconta degli ultimi anni dell’artista britannica, in cui ha dovuto far fronte a tutte le turbolenze e agli imprevisti della vita. Tutti insieme e uno di seguito all’altro.
Ha dovuto affrontare la malattia terminale della madre fino alle sue estreme conseguenze.
Ha dovuto affrontare la sua perdita durante l’isolamento forzato dovuto al Covid.
Si è sposata ma subito dopo ha anche divorziato.
Tutto velocemente, tutto sorprendentemente.
Fino a non reggere più, fino a pubblicare sui social i suoi intenti suicidari.

Per fortuna qualcuno è intervenuto e a Nadine è servito un ricovero per affrontare i suoi disturbi psichici e lavorare sulle perdite e su come possa essere difficile elaborarle.
Ma non aspettatevi il disco di una vittima.
Non aspettatevi che il dolore annienti la volontà.
Anzi, a partire proprio da quel suicidio annunciato è partita un ricerca sincera e spietata sul potere che possiamo esercitare su noi stessi e gli altri.

Non mi ricordo chi avesse detto che il suicidio rappresenta la forma più sincera di autocritica.
A parte la provocazione, questo disco è davvero il racconto senza sconti di un momento di difficoltà e delle risorse (compresa la rabbia, l’ironia, il sarcasmo) per riuscire a superarlo.
L’esperienza del ricovero per la riabilitazione psichica ha rappresentato in effetti una grande opportunità per Nadine Shah che ha potuto/dovuto dedicare tante energie e impegno all’analisi della propria esperienza e delle proprie emozioni.
Il risultato è potente, quasi visionario e raccontato da una persona grata che oggi sa di guardare il mondo da una prospettiva privilegiata; quasi a metà strada tra i due mondi.

Nella canzone Greatest Dancer racconta della sua alienazione nei sabato sera in cui, quasi in uno stato di trance, guardava “ballando con le stelle” in TV e si sentiva sfortunata e inferiore rispetto a questi ballerini in gara.

Nella canzone Topless Mother racconta dei sentimenti di incomunicabilità e di repulsione che ha provato verso un terapeuta. La canzone suona piena di presunzione ed egocentrismo ed è quasi una sfida nei confronti del medico e un verso dice “ti pago solo per assecondarmi”.
E nel ritornello elenca le parole senza senso con cui lei rispondeva alle sue domande: “sinatra, viagra, iguana, tequila, banana, alaska, medusa, gorilla”.
E infatti l’artista ha spiegato: “È una canzone su un consulente psichiatrico con cui ho lavorato e con cui non andavo d’accordo. Sono abbastanza certa che il sentimento fosse reciproco. Alcune persone semplicemente non cliccano e alcuni stronzi come me scrivono canzoni a riguardo”.

Nella canzone Twenty Things parla delle venti terribili verità che ha imparato a sue spese e a cui pensa nei momenti di difficoltà. Tipo: “La gente del posto mi dimentica presto”, oppure “La vergogna è terribile ma è fugace”, e ancora “Sono io quella che si prende sempre la colpa”.
E più il disco va avanti più si va ad assottigliare fino a quasi sparire la linea sottile (e immaginaria) tra “normalità” e “patologia”.
Ognuno di noi è consapevole che ogni giorno lotta con i demoni interiori che Nadine ci canta guardandoli negli occhi. E non è detto che un giorno saranno loro ad avere la meglio su di noi.

Per esempio, in Sad Lads Anonymous Nadine riesce a comunicare, con un tono quasi pastorale che potrebbe ricordare i Dry Cleaning, la sua incapacità di sentirsi a proprio agio ovunque. Nemmeno il paese dove è nata e cresciuta riesce a darle la sensazione di sentirsi a casa e accettata. E infatti dice: “Il mare non è l’unica cosa piena di merda qui / Pensi che l’acqua fredda ti salverà?”.
La canzone finale “French Exit”, invece, ci racconta che la storia poteva finire male, e invece ha portato alla composizione di questo disco. Qualcosa l’ha salvata.

French Exit è una definizione per indicare una persona che lascia un incontro sociale, o un appuntamento, senza salutare.
Ma qui Nadine parla della sera in cui ha pensato di suicidarsi.
Il tema esplorato è quello dell’addio, della fine, sia essa di una relazione fino a quella più estrema della propria vita.
Ma la canzone assolutamente non racconta la crisi cercando di renderla più drammatica. Ma si limita a fare un elenco delle cose che ci sono intorno a lei in quel momento, come il coperchio della scatola della pizza o un vino buonissimo, il Chateau Musar.
Il possibile suicida è inserito in un contesto condiviso con agli altri. E li si confonde. E’ uguale e me e a te.

«Sono mai stata matta? Forse sì. O forse è matta la vita. La follia non è essere a pezzi o custodire un oscuro segreto. La follia siete voi o io, amplificati».
Così diceva il personaggio di Winona Ryder nel film “Ragazze interrotte”.
E ora abbiamo un disco che ce lo ricorda.