Padrone di ciò che si tace, schiavo di ciò che si dice | Matteo Lion

A volte non si hanno parole, ciò significa che si è sconcertati o attoniti.
Credo che ognuno di noi in questi tempi funesti di guerre e atrocità sia rimasto spesso senza parole.
Infatti queste guerre moderne vengono raccontate più con immagini (…tra l’altro vere o false?).
Sembra che le parole siano usate solo per ingannare, suggestionare, mistificare. E si arriva ad ascoltarle con sospetto.
Sarà per questo che ultimamente sto ascoltando sempre più spesso dischi che sono cantati con lingue che non esistono, con parole che sono suoni ma non significati precisi.

Il primo disco di cui vi voglio parlare è “Nekkuja” di Marina Herlop.
L’ho scoperta con il precedente disco “Pripyat” che ha avuto un grande successo e praticamente da due anni la Herlop è in tour in giro per il mondo per presentarlo. Io l’ho vista l’anno scorso a Modena per il festival Staccato e quest’anno in primavera a Firenze in sala Vanni e mi ha entusiasmato.
Anche Björk durante i suoi dj-set spesso mette qualche traccia estratta da quel disco.
Nekkuja, la parola che dà il titolo al nuovo disco, è ovviamente una parola inventata – come gran parte dei suoi testi – anche se in una recente intervista ha dichiarato che a posteriori ha scoperto che in finlandese ha un suono simile alla parola “caramelle”.
Molti dei suoi testi non usano parole “vere” ma parole composte da suoni funzionali alla melodia che creano un nuovo linguaggio, quasi una lingua mistica e sconosciuta che parla al nostro inconscio.
La cantante ha dichiarato che la scelta è dettata dal fatto che preferisce non parlare di cose personali nelle sue canzoni. Non vuole parlare di nulla.
Si tratta più di un gioco di proporzioni. Un gioco che spinge sempre più avanti, come un castello di carte che continua a salire. Usa l’elettronica per moltiplicare e raddoppiare la sua voce, le sua risatine, i suoi grugniti fino a circondare l’ascoltatore da una voce ultraterrena, lontana ma vicina, esattamente simile a quelle che sentiamo quando sogniamo.
Vi invito a scoprire il brano Busa, una esplosione di dettagli elettronici che trasportano il suono verso una sorta di miraggio astratto. La voce di Marina si muove tra questa stratificazione di suoni, che parte da una risata infantile fino a diventare un mantra sciamanico che riesce ad evocare speranza ed energia.
Nel nuovo disco c’è solo una canzone, La Alhambra, che invece è cantata in catalano.

L’altro disco meraviglioso che vi consiglio è Spira il debutto della cantante sarda Daniela Pes.
Anche questa artista ha scelto per le sue canzoni la strada della destrutturazione della lingua.
Non usa parole vere, ma verosimili. Parole che sembrano altre parole, ma non lo sono fino in fondo.
La lingua ritorna ad essere un suono arcaico. Suono che diventa una utopica lingua futura.
Vi consiglio vivamente di non perdere il suo live. Le prossime date sono:
09.11 Bologna – Locomotiv Club – data già sold out
11.11 Parma – Barezzi Festival / Sala Ipogea
12.11 Novara – Nj Weekender
24.11 Milano – Linecheck Festival
28.11 Torino – Ogr Torino

Non sono le prime artiste a cantare in lingue sconosciute. In tempi “recenti” anche i Sigur Rós cantavano in Vonlenska (definita “lingua della speranza“), una lingua inventata dal cantante della band.

In questo momento storico le parole sembrano così vuote o, peggio ancora, false.
Ho bisogno di sentire l’umanità di forme di comunicazione diverse dal linguaggio. Come un un sorriso. Che alla fine non è altro che una reazione del tutto spontanea, un’espressione silenziosa ma che sa comunicare bene il nostro stato d’animo. Proprio come questi dischi.