Un vero cattivo non si pente mai | Alberto Guizzardi

Una favola che si rispetti ha sempre un villain che muore o viene castigato e alla fine tutti vissero felici e contenti.
Nella parabola di Wanna Marchi i villains sono almeno due, mamma e figlia che dagli anni ’80 ai primi duemila hanno imperversato tra le tv locali vendendo fuffa con metodi poi rivelatosi quasi estorsivi, con quella esclamazione – “D’accordo??- che più che interrogativa era esortativa.

Il documentario Netflix “Wanna” ripercorre le vicende che hanno portato una proprietaria di una profumeria nella provincia bolognese a diventare un fenomeno mediatico, prima con le famose alghe scioglipancia e poi con i numeri fortunati e le pozioni per scacciare il malocchio.
Le interviste con mamma e figlia rivelano la personalità di due donne legate tra loro da un legame indissolubile e ancora convinte che “i coglioni vanno inculati”.

Le interviste ai personaggi di contorno rivelano un sottobosco a volta più inquietante delle stesse protagoniste.
Su tutte la socia del primo periodo, poi condannata per associazione camorristica, che racconta, come una novella Candide, vicende di una gravità inaudita.

La serie di 4 puntate si guarda di un fiato grazie a un montaggio frammentato e incalzante; il suo merito è di non dare giudizi ma una semplice esposizione dei fatti: ne emerge il ritratto di due persone non redente che si commuovono solo nel ricordare quando sono state separate in carcere e poi successivamente ricongiunte.

Wanna Marchi ha accettato di farsi intervistare richiedendo di non coinvolgere il figlio che è sempre rimasto fuori dalla vicenda e che appare solo in qualche foto.
Non si sa quali siano i rapporti tra loro ma la sensazione è che dalla narrazione che ci racconta manchi un tassello importante che, fuori dal clamore mediatico, incida molto di più di quel sembri nella corazza di un personaggio apparentemente invulnerabile.

Alberto Guizzardi