Ciò che più importa è altrove | Matteo Lion

I primi giorni di Ottobre è stata pubblicata una cover di “Father Lucifer”,  pezzo del 1996 di Tori Amos, interpretata dal cantautore venezuelano, genovese d’adozione, Cabruja.
Il singolo anticipa l’album “Cabruja” che uscirà il 5 Novembre.
Ho avuto la possibilità di ascoltare in anteprima il disco e di scambiare qualche battuta con lui.

Da grande fan di Tori Amos ho conosciuto il tuo lavoro grazie al tuo primo singolo, la cover del pezzo “Father Lucifer”.
La tua versione mi piace davvero molto.
La canzone parla del nostro lato oscuro, dei segreti dell’inconscio. Si tratta di rivendicare in noi stessi ciò che odiamo negli altri.
Parla del bisogno di esplorare le nostre ombre, dove ci nascondiamo, parla dei sentimenti che neghiamo anche a noi stessi.
È l’eco del nostro io più nascosto, secondo me ben rappresentata dalla doppia vocalità con cui hai prodotto la traccia.
Cosa ti ha colpito nella scrittura della Amos?
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Ti confesso che nel 1996 quando il suo disco “Boys for Pele” fu pubblicato io iniziavo l’università a Caracas. Il mio inglese era scolastico, decisamente inferiore rispetto al mio livello attuale. Tori Amos quindi all’epoca non mi colpì per i suoi testi ma per aspetti più viscerali, pancia e cuore. In realtà ancora oggi quando ascolto una canzone (di qualsiasi artista) mi concentro prima sulla melodia e le sonorità. Il testo viene dopo, quando diventa allora un oggetto di ricerca. Father Lucifer, banalmente e proprio a partire dal titolo, ti presenta come figura paterna un essere portatore di luce (Luci-fero), ribelle e disobbediente. Non c’è di meglio per attirare l’attenzione di un adolescente… anche l’adolescente che c’è ancora in me.

Dal testo originale di Tori Amos hai eliminato una strofa. La strofa, piena di contro cori, raccontava il lato oscuro attraverso alcuni personaggi e le loro ombre. Per esempio citava Joe di Maggio, il campione di baseball, portare fiori alla tomba della moglie Marylin Monroe nonostante nella realtà sia stato molto geloso, manesco, possessivo e addirittura violento. Hai sostituito, per me in modo geniale, la strofa originale con un frammento di “The Litanies of Satan” di Diamanda Galas, altro disco che racconta la parte oscura e reietta dell’animo umano.
Raccontaci come hai maturato questa scelta?
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La scelta è stata fatta per molteplici motivi. Non avrei mai osato replicare la complessità del bridge del brano originale. Ho sentito che io non gli appartenevo, e viceversa, non mi apparteneva. È una cover, una mia personale versione. Quei versi di Baudelaire li ho conosciuti e apprezzati grazie a Diamanda Galás,  un’altra cantante che ammiro profondamente, che per certi versi mi ha ispirato a recitarli in francese fregandomene del mio accento. Li ho scelti per rendere questa cover ancora più “mia”. Paradossale, forse, visto che i versi non sono appunto scritti da me.

Questo disco, secondo me, è quanto di più distante dalla retorica del “qui e ora” con cui i guru esistenziali ci hanno tormentato negli ultimi anni. Il “qui e ora” dove il proprio io diventa l’ombelico del mondo di Jovanotti.
Tu parli del passato, parli di un altrove sia geografico che temporale.
Il disco parla di te ma attraverso le prospettive del passato, del futuro, delle mancanze, degli altri o di luoghi diversi in cui ti sei trovato, vorresti trovarti o di cui senti nostalgia.
Mi sbaglio?
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Io non ci sono mai, Matteo, io sono sempre altrove. Avevo pure pensato che “Altrove” sarebbe stato un bellissimo titolo per questo album.
Se io mi presento con questo disco, con delle canzoni che porto con me da tanto tempo, è perché sono fatto anche dalla polvere che ho raccolto lungo gli anni. È ingenuo pensare il contrario, il modo in cui vivo il “qui” e “l’ora” sicuramente dipende anche da questo. Come dici tu, il disco parla di viaggi, di quello che ho lasciato dietro, ma anche di quello che non ho mai avuto. Mi riferisco forse a delle aspettative non soddisfatte. Ma parla anche della necessità di non giudicare in base a delle aspettative che magari non sono nemmeno proprie, e che magari andavano bene in un certo momento della nostra vita, ma che adesso proprio non hanno senso. Anche questo è un viaggio, un percorso da fare.
Spesso, però, non è possibile capire cosa sia successo durante questo percorso finché non siamo arrivati; non è possibile tirare le somme. Io spero di non arrivarci mai.. magari quando sarò morto, e a quel punto non avrà più importanza.

Gli anni ’90 devono avere avuto una grande influenza nel tuo gusto musicale a giudicare dalle cover scelte per il disco. Oltre alla Amos troviamo “Unravel” di Björk, “B-Line” dei Lamb, “All mine” dei Portishead.
Musicalmente sono stati un vero miracolo. In quel decennio la musica “alternativa” è stata sdoganata.
Probabilmente perché anagraficamente io sono un boomer nostalgico, ma a me “Zitti e buoni” dei Maneskin non mi fa lo stesso effetto che provai con “Smells Like Teen Spirit” di Nirvana. L’essere “Loser” alla Beck lo trovo così distante da Billie Eilish, pur trovandola molto interessante. L’eleganza della malinconia trip-hop la trovo sempre più potente dei testi cupi e minacciosi sulla vita di strada tra criminalità e disagio della Trap.
Come li ricordi i tuoi anni ’90?
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Chiunque sia stato adolescente durante gli anni novanta, si è formato avendo a che fare con un certo cinismo nel cinema, la tv, e nella musica. Era molto diverso dal dark new wave degli anni ‘80. Come dici tu, elegante malinconia, senza speranza. Quindi é stato un decennio meraviglioso per essere adolescente! Trovare la bellezza nel buio e in quei tempi bui era davvero commovente. Ecco Tori, ecco Björk, PJ Harvey (quella copertina!), ecco i Lamb, i Radiohead, i Portishead, Fiona Apple, tanti altri. Ascoltare questi artisti era anche un modo di essere altrove, una realtà diversa dagli anni 90 venezuelani, un decennio particolarmente importanti in termini di eventi accaduti con delle conseguenze molto tangibili ancora oggi, che vivo da lontano ma molto da vicino perché è il mio Paese, dove c’è la mia famiglia.
Questi artisti non solo mi hanno accompagnato, mi accompagnano, nei miei viaggi, ma sono anche il sentiero di mattoni gialli. Ad esempio, Björk mi ha fatto arrivare a Gloomy Sunday, brano che fa parte della tracklist di questo album.
Ho cercato Björk su Napster (altro bellissimo ricordo di fine anni 90) e ho scaricato TUTTO sul computer del club di letteratura fantascientifica della mia università del quale facevo parte (non avevo internet a casa), ho trovato la sua versione di Gloomy Sunday.
Quando poi mi sono ossessionato con questa canzone e ho scaricato tutte le cover esistenti, sono arrivato a Diamanda Galás, che hai nominato prima. Diamanda mi portò a Baudelaire, che poi ho aggiunto a Tori Amos in questo disco. Questa costellazione di meraviglie tutte collegate in un certo senso mi governa e mi fa viaggiare. È bellissimo.

Leggendo i credits del disco “Cabruja” spunta il nome di Paolo Fresu alla tromba. Ci racconti la produzione, la genesi e i collaboratori del tuo progetto.
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L’idea iniziale proposta da Raul Girotti, producer e proprietario di Over Studio Recording, era fare un EP di covers , pianoforte e voce. Ho iniziato a lavorare con Denis Biancucci, pianista, per “tramutare” dei brani, magari più ricchi in termini di sonorità e strumenti, in una loro versione piano bar. I lavori sono andati un po’ lenti, considerando che tra me e lo studio ci sono gli Appennini e poi arrivò il primo lockdown, che in realtà mi permise di fare una cosa inedita: scrivere un brano mio. Melodia e testo. “Lisboa Tbilisi” nacque su una tastiera avuta in prestito. A quel punto arrivò anche un secondo inedito scritto insieme a Giancarlo Di Maria, con cui ho stabilito un rapporto molto stimolante, creativo e anche divertente. Raul è riuscito a coinvolgere degli artisti incredibili come Giancarlo e Cristiano Alberghini per gli arrangiamenti. Ero felice di sapere che i musicisti in studio fossero contenti di partecipare e che trovassero interessante il progetto, la scelta dei brani e la mia voce. Paolo Fresu, che hai sottolineato tra i nomi nei crediti, è evidentemente un uomo molto generoso con il suo talento e a richiesta di Raul, approfittando che era in studio per altri progetti suoi, ha dato il suo preziosissimo contributo sul brano Gloomy Sunday. Io non posso che essere grato e onorato di aver potuto cantare accompagnato dalla musica e il talento non solo di Fresu ma di tutti i musicisti coinvolti, Valentino Corvino, Iarin Munari, Marco Dirani, Antonello d’Urso, Denis Biancucci (con cui tutto ebbe inizio), Michela Tassinari che ha accompagnato con la sua bellissima voce la mia su Father Lucifer, e anche il lavoro di Angelo Paracchini a mettere insieme tutti i pezzi di questo puzzle.

Matteo Lion