
È appena finita la terza stagione di The White Lotus, la serie HBO che, partita come fenomeno di nicchia, ha raccolto premi e rinnovi che l’hanno fatta diventare un fenomeno di massa.
Questa terza stagione ha amplificato l’interesse e l’inevitabile dibattito a posteriori sul plot narrativo, sulla graduatoria fra le annate, sulla ripetitività di certi schemi (ripetitività che fa parte del concept iniziale quindi che senso ha ribadirlo?) e via di seguito.
E nel dibattito entra sempre di più il product placement, di abbigliamento e prodotti riconoscibili, come se non fosse mai stato fatto prima e come se ambientando uno storytelling all’interno di un resort di lusso fosse “strano” trovarsi di fronte a abiti e accessori di lusso indossati dai/lle protagonisti/e.
Senza contare che tra l’altro il team di addetti ai costumi, circa 30 persone, ha selezionato brand noti e ma anche meno noti, alcuni decisamente poco conosciuti, attraverso ricerche su Instagram che hanno regalato agli interessati una popolarità benefica per il fatturato.
A parte lo stupirsi e l’atteggiamento censorio che si attiva con maggior vigore solo quando ci si riferisce a prodotti moda e affini (quasi mai a prodotti tecnologici o di altro genere di consumo) quello che bisognerebbe chiedersi è se definire attraverso gli abiti il carattere e l’identità di un personaggio non sia in realtà un atto di estrema cura nei confronti della scrittura di quel tale personaggio.
In pochissime parole: è normale che una donna ricca si porti in vacanza una borsa di Gucci come il marito ricco (forse non più ricco) della stessa donna si porti/indossi un Rolex perfino in un resort thailandese lontano da tutto.
Avrebbe avuto più senso nascondere i marchi o evitare lo sfoggio così evidente di griffe iper conosciute a favore di oggetti meno logati?
Forse la caratterizzazione dei personaggi non avrebbe risentito del tutto ma è una scelta che deve rimanere in carico a chi scrive e costruisce l’identità dei propri character, fa parte della libertà creativa della narrazione e non può essere regolamentata ex post.
Lo sanno benissimo i/le costumisti/e italiani/e che di fronte ai vincoli rigidissimi imposti soprattutto dalla Rai si trovano a dover impostare l’immagine dei teenagers con t-shirt e felpe dalle grafiche improbabili e completamente prive di qualsiasi marchio riconoscibile che pone i personaggi subito al di fuori della sfera reale.
Ma tornando alle serie più famose siamo sicuri che la nostra percezione di personaggi come Kendall Roy di Succession, Villanelle di Killing Eve (adorabile psicotica) Becky di Chloe, Wednesday o Elsbeth sarebbe stata la stessa senza gli abiti che indossano? Il mix schizoide di ricerca di autorevolezza e coolness in bilico fra Loro Piana e Margiela di Kendall Roy quanto ci ha raccontato di questo erede mancato e disperato?
A certi livelli di costruzione narrativa gli abiti e gli oggetti sono essenziali quanto le battute e lo script.
Certo, esiste anche Emily in Paris e il supermercato delle griffe usate all’ingrosso per fare numero, ma in tutti i casi citati sopra e in molti altri io i/le costumisti/e li/e citerei subito dopo la writing room, e anche i brand che compaiono in video, in modo da agevolarci la ricerca senza ricorrere a https://wornontv.net e https://www.spotern.com/en.
Se lo meritano.

CLAUDIA VANTI
Stilista eclettica, ha collaborato per anni con marchi del pret à porter italiano e internazionale come Ferré, Chanel, Hugo Boss.
Insegna Design del Prodotto moda, ha la passione del disegno e il sogno segreto di scrivere la sceneggiatura di una serie tv. Ovviamente sulla moda.