Orgoglio e pregiudizio | Matteo Lion

Una delle mie canzoni preferite è “After All” di David Bowie.
Una specie di valzer alieno che esplora i temi della paranoia e dell’isolamento. Contiene un verso che per me è diventato un mantra: “So hold on to nothing, and he won’t let you down”, ovvero “aggrappatevi al nulla, e lui non ti abbandonerà”.
Tori Amos non solo pubblicò una strepitosa cover di quella stessa canzone, ma usò lo stesso verso in una sua canzone, “Pretty Good Year“. Tori scrisse la canzone dopo che un fan di 23 anni, Greg, le inviò una lettera in cui diceva che la sua vita era finita.
Ho sempre pensato che il “niente” a cui Greg si sarebbe potuto aggrappare potesse essere proprio quella canzone, onesta e senza commiserazione.

Ma non tutti possono avere la fortuna di avere una canzone a cui aggrapparsi.
Una canzone che parli proprio a loro, che riesca a sostenere fino a poterla usare, come una preghiera, per i propri più intimi bisogni.
Una semplice canzone ma che abbia il potere di indicare uno stile di vita.
Una musica che riesca a risvegliare i fantasmi dentro di loro. Non i demoni, ma i fantasmi.

Sono certo che tante persone al mondo la scorsa settimana avranno provato questi sentimenti quando Oliver Sim (ex componente del gruppo britannico The xx) ha pubblicato la canzone “Hideous“, che anticipa il suo primo disco da solista in uscita a settembre.
Nella canzone il cantante parla per la prima volta del suo essere sieropositivo da quando aveva 17 anni.
Senza giri di parole o metafore ma cantando chiaramente:”Been living with HIV, since seventeen”.
Anche in questa canzone non c’è commiserazione, e infatti canta: “non mi sento come se fossi stato sfortunato. Ho persone nella mia vita che mi amano davvero”.
La canzone comincia con una domanda retorica: “sono orribile per questo?”
Nel lungo messaggio scritto di suo pugno per lanciare la canzone, Oliver Sim ha detto che è una domanda che lui pone al mondo, con la differenza che lui adesso sa qual è la risposta giusta.
Si rivolge agli altri che credono di essere diversi da lui perché sieronegativi.
E mi torna in mente un passaggio del libro di Jonathan Bazzi “Febbre”, che racconta proprio della sua diagnosi di HIV.
Alla fine del libro scrive: “Non ho fatto niente di male, non abbiamo fatto niente di male. Chi non la pensa così vuole proteggersi a nostre spese; è un esorcismo, antiche tecniche apotropaiche”.

In merito alle canzoni che riescono ad essere di conforto Ian Cross, professore di musica presso l’Università di Cambridge, ha detto: “A quel punto non ci si sente più soli, perché ci si ritrova almeno in due. C’è anche la persona che canta, e che sicuramente capisce cosa stiamo vivendo, come ci sentiamo”.
È come tornare bambini e riuscire a calmarsi con una ninnananna.

Nel libro “Il Mondo in 6 canzoni”, Daniel J. Levitin aggiunge: “Tale connessione, anche se con uno sconosciuto, contribuisce al processo di guarigione, giacché sentirsi meglio è in buona parte legato alla sensazione di essere capiti. Inoltre si è indotti a pensare che chi ha composto una certa musica debba aver vissuto e superato quella fase, ed esserne uscito sano e salvo, al punto da poterla trasmettere agli altri.”

Nonostante le stime del 2020 dicono che nel mondo 37,7 milioni di persone vivono con l’HIV, sono davvero poche le canzoni che parlano a questa comunità.
E sono davvero pochi gli artisti che, dalla loro posizione di potere, decidono di fare il coming out sierologico.
Qualche anno fa lo fece Billy Porter, la star di Pose, che dopo 10 anni dalla diagnosi trovò il coraggio di comunicarlo al mondo.
Anche il cantante John Grant dichiarò di vivere con l’HIV proprio dal palco durante un concerto a Londra. E poi scrisse una canzone in particolare, “Ernest Borgnine“, in cui cerca di elaborare la realtà della diagnosi chiedendosi come si comporterebbe uno dei suoi eroi cinematografici preferiti, Ernest Borgnine appunto.

Ora le nuove terapie non solo permettono di avere la stessa aspettativa di vita delle altre persone ma, in più, è ormai scientificamente provato che la terapia rende le persone sieropositive non più infettive e quindi non in grado di trasmettere il virus.
Ovviamente che non si muoia più e che, di fatto, l’HIV sia “solo” uno stato sierologico permanente e non trasmissibile è sicuramente una cosa ottima.
Ma di fatto da allora sono sempre meno le canzoni che affrontano l’argomento.
È come se Giulietta e Romeo non fossero morti per amore. Chi vorrebbe più sentire la storia del loro matrimonio stanco con un mutuo da pagare?
Le terapie rendono, per fortuna, totalmente normali le vite delle persone sieropositive e, forse, questo rende la questione meno interessante da trattare nelle canzoni.
Il cinema parla ancora molto di HIV. Spesso però guardando al passato, agli anni ’80, all’inizio della pandemia. Mi vengono in mente “120 battiti al minuto” o “Dallas Buyers Club”.
Anche in letteratura sono stati pubblicati ottimi romanzi, come appunto “Febbre” di Jonathan Bazzi (finalista al premio Strega) o “I grandi sognatori” di Rebecca Makkai (finalista finalista del Premio Pulitzer e del National Book Award).Ma tutto pare essere più complicato da affrontare in soli 3 minuti e mezzo di una canzone.
Forse per gli artisti era più didascalico (o necessario?) raccontare l’HIV negli anni ’80 e ’90 quando ancora era mortale ed era netta la separazione tra chi aveva contratto il virus e chi  invece era sieronegativo.
Per esempio “Cose che dimentico ” di Cristiano e Fabrizio de André. Lo stesso Cristiano ha detto che la canzone parla di HIV e di una doppia distanza, di come la malattia separi chi ce l’ha dagli altri.
Nel 1993 diventa un tormentone e vince anche un MTV Music Award “Waterfalls” delle TLC.
Il testo in realtà è un’invettiva abbastanza retorica contro la promiscuità che favorirebbe la diffusione dell’HIV.
Nel 1987 Prince in “Signs of the times” cominciava la canzone con il verso “In Francia un uomo molto magro è morto di una grande malattia con un piccolo nome”.
Carmen Consoli ha scritto “Per niente stanca” ispirata dalla solitudine provata da un amico sieropositivo nei difficili anni ’90. “Adesso che ho sangue infetto nessuno vorrà più leccare le mie ferite. Adesso che sto in questo inferno angeli, amici e fratelli hanno preso il volo.”

Ma ora le cose sono cambiate. È più difficile raccontare lo stigma strisciante che ancora persiste nonostante le evidenze scientifiche.
Credo sia davvero più difficile raccontare questi corpi di fatto sani ma di queste anime ancora impaurite (e ingiustamente stigmatizzate).
Bjork sceglie di essere scientifica quando in “Virus” canta: “Un virus ha bisogno di un corpo. Faccio festa dentro di te, tu mi ospiti. La perfetta combinazione, tu ed io. Ho fame di te, il mio dolce avversario”.
Oppure ci sono le canzoni piene di motivazione e di attivismo di Mykki Blanco:  “Ho buttato troppi anni a essere sprecato. Ho un’altra possibilità per vivere bene e la prenderò”.

Ho pensato di chiedere a professionisti o attivisti in ambito HIV qualcosa in merito al rapporto tra musica e HIV.

Angela Infante, attivista e Counselor del Reparto di Malattie Infettive del Policlinico Tor Vergata di Roma, mi ha inoltrato un suo filmato ‘Danza e HIV” (realizzato con Davide Belliconi) che usa per raccontare ai ragazzi come la storia del movimento LGBTQIA+ ha incontrato quella dell’AIDS, generando uno stigma voluto e, ancora oggi, esistente.
Nel video, tra gli altri, ci sono:
Diamanda Galás con “This Is The Law Of The Plague“: una miscela di musica, teatro e performance art di un’artista unica nel suo genere. Quando suo fratello morì di AIDS nel 1986, si fece un tatuaggio sulle nocche della mano sinistra con la scritta “Siamo tutti HIV+”.
Pet Shop Boys con “Being Boring“: Una canzone sull’innocenza della speranza, l’eccitazione dell’esperienza e il dolore che accompagna la crescita personale ben rappresentata dal videoclip di Bruce Weber. La band ricordò un amico a cui fu diagnosticato l’AIDS anche nel 1987 con la canzone “It Couldn’t Happen Here”.
Elton John e Years & Years “It’s a Sin” (Pet Shop Boys cover): eseguita ai Brit Awards per raccogliere fondi per la Elton John AIDS Foundation. E’ stata la colonna sonora della miniserie TV omonima, che ha fatto aumentare la consapevolezza sull’importanza di fare il test HIV tra il pubblico più giovane.

Marco Falaguasta, cofondatore di PrEP in Italia mi segnala “Free me” di Sia.
“Con questo brano, e con il video che lo accompagna, Sia pone l’accento sull’incidenza con cui l’HIV colpisce il sesso femminile, arrivando ad essere la prima causa di morte nel mondo tra le donne in età fertile.
Ho scelto questo pezzo perché fa guardare l’HIV da una prospettiva diversa e più ampia rispetto a quella di infezione appannaggio solo di determinati gruppi sociali, contribuendo così ad abbattere lo stigma correlato”.

Alberto Bottaro, psicologo di infopsicologia.it, mi cita “Svegliami” dei CCCP e non mi sorprende visto che il sottotitolo del brano è “perizia psichiatrica nazionalpopolare”. E’ un brano che parla di “questa razza umana che adora gli orologi e non conosce il tempo” e non si ferma di fronte a nulla, neanche a una persona che muore di AIDS.

Giulio Maria Corbelli, del Checkpoint Plus Roma, pensa subito al lavoro di John Grant.
Il cantante ha spiegato in un’intervista perché si sia esposto con la sua musica: “Mi viene naturale. È un modo per prendere il controllo della mia vita, per sopravvivere e trovare un senso nel mondo che mi circonda. Mi hanno insegnato a vergognarmi di quello che sono e per me questo è un bel modo per smetterla di disprezzare me stesso. Con la musica sistemo le cose. All’inizio mica volevo fare canzoni sul fatto che sono gay o che ho l’HIV. L’ho fatto perché questa cosa in passato è stata usata contro di me come un’arma”

Matteo Lion