Memoria | Alberto Guizzardi

Infinite Jest – David Foster Wallace
Si può rinunciare alla famiglia?
Orin Incadenza pensa di sì, pensa che l’odio/amore maturato nei confronti di genitori tanto ingombranti sia un valido motivo.
Ha scelto di farcela da solo.
È diventato campione di uno sport diverso da quello che il padre aveva pensato per lui e il fratello.
Non la via comoda del Tennis imparato nella scuola creata da “Lui in Persona”, come tutti chiamano quel padre così famoso, ma quella del Football Americano.
Mentre il fratello è schiacciato dal dovere di eccellere per forza, essendo figlio di, lui è già campione osannato e con fama ben meritata di sciupafemmine.
Orin ha solo nostalgia di Mario, fratello “speciale”, quello a cui non sarà mai concessa la scelta di essere qualcuno.
E quel scocciatore disabile che ha suonato alla porta mentre  si trova in dolce compagnia gli ricorda tanto Mario e Orin sa che l’intervista sondaggio che gli vuole fare è solo una scusa per… per avere un autografo? Per carpire qualche informazione al personaggio famoso?
Non importa, si può perdere un po’ di tempo a giocare con gli scocciatori.

La domanda, finta o vera che sia, apre squarci nella memoria di Orin
“Cosa ti manca di più nella tua vita?”
E il pensiero va subito ai ricordi dell’infanzia, delle colazioni alla mattina nella cucina con le piastrelle smaltate, delle porte automatiche dei centri commerciali che si aprivano solo perché sentivano la tua presenza e poi… poi c’era la tv commerciale.
Era la tv che si guardava tutti insieme e che maledicevi quando c’era la pubblicità sparata a tutto volume.
Era quella di quel Sony con il tubo catodico, con quel cassone dietro, che perdeva il segnale quando gli aerei passavano sopra la casa.
Era quella che trasmetteva programmi spazzatura, impossibili da non guardare e dei quali ci si divertiva a parlare poi male.
Era la tv de palinsesti , che ti costringevano a controllare di continuo la guida tv per non perdere il programma che ti piaceva.
Era il simbolo del focolare domestico, il luogo di ritrovo dove tutti prima o poi ci si incontrava, quello che ormai si è fatto  memoria,  travolto e soppiantato da nuovi servizi digitali, trionfo dell’individualità.

L’intervistatore gli fa notare che ora si ha il massimo della libertà, avendo la possibilità di rivedere tutto come e quando vuoi, ma a Orin  questo non interessa, quello che gli interessa non è quello che puoi fare ora ma quello che non può essere più.
Rimane il ricordo, la memoria delle cose belle, di quando le prospettive erano diverse; cresce un sintomo di malessere come se il pensiero a quello che poteva essere…
L’intervistatore interrompe il flusso di pensieri…
Prossima domanda?

Il tempo ritrovato – Marcel Proust
Siamo alla fine della romanzo
Il narratore sta raggiungendo l’ultima festa dai principi di Guermantes.
È appena finita la prima guerra mondiale e da molto tempo non vede le persone presenti alla festa.
Lui si sente abbattuto perché ancora non ha trovato la chiave per diventare lo scrittore che ha sempre desiderato essere.
È proprio durante questa festa che esploderà la memoria involontaria che lo porterà a capire che è pronto a scrivere il romanzo della vita

Una madeleine imbevuta nel tè, un piede appoggiato sui ciottoli mal livellati del selciato, il tintinnio di un cucchiaio contro un piatto.
La memoria a volte si nasconde dietro porte che sembrano invalicabili e che improvvisamente si aprono grazie a un evento apparentemente fortuito.
Il Narratore sta arrivando al matinée dei principi di Guermantes, atto finale della sua “Recherche” del tempo perduto.
Lì lo aspettano molti dei personaggi inseguiti per le migliaia di pagine del suo romanzo, personaggi che appaiono come se il tempo per loro non fosse passato.
Ma è la memoria del Narratore che li fa sembrare quasi cristallizzati, ma la realtà è ben diversa.
Come manichini mossi da fili immaginari si apprestano all’ultima recita durante quel matinée dove aleggia la presenza/assenza dei già morti e dove i vivi annaspano dietro trucchi improbabili alla ricerca di una normalità che non può più essere.

È lo stesso destino del Narratore che quel mondo di aristocratici lo ha osservato come un entomologo, lo ha cercato, inseguito, amato.
Ora il gran ballo sta finendo e ne rimane solo la caducità.

Ma ci sono ancora quelle porte che ha cercato invano di aprire, quelle porte all’interno della quali avrebbe dovuto trovare il suo talento per scrivere e rendere eterna la vita vissuta in maniera diretta e indiretta.

Ed ecco che quella sensazione di un ricordo ancora vago, non codificato, che saliva fino a quasi farsi riconoscere e poi improvvisamente ricadeva nell’oblio, grazie a quel piede messo male nel cortile della casa dei Guermantes risale fino a congiungersi allo stesso piede messo male sul lastricato del battistero di Venezia; la madeleine inzuppata nel tè spalanca i ricordi dell’infanzia a Combray e cosi via in una continua epifania nella quale l’ordine temporale non ha più alcun valore.

Così il Narratore potrà tornare a casa conscio che è ora di mettere mano alla propria opera ricostruendo il tempo ormai ritrovato.

Vita e Destino – Vasilij Grossman
Sofia Osipovna Levinton ripensava al suo passato, al tran tran della sua vita, ai 5 anni di università a Zurigo, ai suoi 32 anni da medico, alle vacanze tra Parigi e l’Italia, alle cene con gli amici, a quel piacere che nasceva dalla sensazione di aver costruito qualcosa.
Ci ripensava, ora più mai, ammassata con “altri come lei”, su quel treno merci che da Kiev la portava in qualche campo di concentramento in Germania.
Chi era Sofia? La mocciosetta che faceva arrabbiare il padre e la nonna? La donna grassa e irascibile con le mostrine dell’esercito? O questo essere con la rogna, sbattuto in un angolo del vagone, con le pulci che non le davano tregua.
Si stupiva di come c’erano voluti pochi giorni per azzerare l’evoluzione e il progresso che l’uomo aveva avuto, pochi giorni rispetto ai milioni di anni che c’erano voluti per arrivare fin lì.
Di questo invece non si stupiva Eichmann, tra i fautori e poi esecutore della soluzione finale, anzi si gloriava del fatto che in pochi mesi avrebbe risolto un problema che durava da duemila anni.
E non si stupiva nemmeno Stalin che, con la scusa delle sue politiche agricole, qualche anno prima aveva affamato la ribelle Ucraina, trasformando il granaio d’Europa in un campo di sterminio a cielo aperto.
Sonia sentiva anche adesso lo sguardo minaccioso del padre e della nonna e si faceva piccina nel suo desiderio di bere un bicchiere d’acqua per dissetarsi.
Si aggrappava comunque a quella esistenza, che non poteva più chiamarsi vita, perché il pensiero di una morte violenta la terrorizzava.
Chi è questo essere che ti riduce in nullità, che un giorno ti può essere amico e il giorno dopo diventa il tuo carnefice?
Chi è questo essere che non impara mai dal passato, dimentica, rinnega ed è pronto nuovamente a commettere le stesse atrocità?
Chi è questa bestia?

La città dei vivi – Nicola La Gioa
Un efferato omicidio senza alcun movente.
L’opinione pubblica che si interroga.
Uno scrittore che cerca l’aspetto umano della vicenda.
Le famiglie assenti anche se presenti.
Il desiderio di andare oltre fino a credere che il reale sia quel paradiso artificiale raggiunto.
La commedia umana si fa tragedia.

Due ragazzi si incontrano col solo scopo di superare il limite; appaiono diversi: Manuel etero, Marco eterodosso.
Eppure sono simili, simili nel cercare l’annientamento.
Vivranno quattro giorni di pura follia, abusando di se stessi, dell’altro e delle figurine di contorno.
L’importante è rimanere nel loro paradiso il più possibile e c’è bisogno di tanta roba perché la realtà venga ricacciata indietro e si possa continuare a sognare che quel momento sia eterno.
Tutto in quella dimensione atemporale è raggiungibile: sbarazzarsi dei genitori, ereditare e vivere una nuova vita, semmai insieme.
E quindi che importa se hai deciso di scaricare tutto il risentimento accumulato sul primo che accetta il tuo invito, quel ragazzo che ha avuto la sola colpa di avere detto sì nel momento sbagliato.

Se pietas non si può avere per questi carnefici, la mancanza di movente diventa la variabile impazzita che ci mette di fronte alla domanda “poteva capitare anche a me?”
Nicola La Gioia, lo scrittore, se lo chiede, perché anche lui prima della fama, dei premi, dei riconoscimenti, è finito in quel cono d’ombra di limiti superati senza preoccuparsi delle conseguenze.

Come sarebbe cambiata la sua vita se quelle bottiglie buttate dall’ultimo piano di un’abitazione fossero cadute sulla testa della ragazza che in quel momento passava sotto? E cosa sarebbe accaduto se la macchina sulla quale guidava ubriaco avesse investito qualcuno?

Il caso, un pari e dispari, la roulette russa, un gioco adolescenziale stupido, sniffare fino all’estremo sentendosi immortali, desiderare qualcuno fino a farne ossessione, sentirsi irrimediabilmente sbagliati.
Quante occasioni possono attraversare la nostra strada facendoci deragliare in maniera irreversibile.

Nicola La Gioia ricorda il dolore della separazione dei genitori come qualcosa di talmente lacerante che doveva essere rimosso.
Qualcosa di talmente lacerante in quanto, nella Bari di inizio anni ottanta, era da considerarsi uno stigma sociale.
L’unica maniera per dimenticare era continuare a farsi del male fino arrivare alle estreme conseguenze di giocarsi con un pari e dispari il suo futuro.
E probabilmente non ne sarebbe uscito, se non fosse arrivato a toccare il fondo; come se fosse stato necessario andare a sbattere contro quel muro che avrebbe potuto ucciderlo e che invece gli ha salvato la vita.

Il destino è sicuramente legato alle azioni di ognuno di noi, ma non fa pagare il prezzo alla stessa maniera.

Quel che resta del giorno – Kazuo Ishiguro
Mr Stevens è seduto sulla panchina insieme alla signora Benn; stanno aspettando l’autobus che riporterà a casa quella che un tempo, ancora nubile, era Miss Kenton.
Non si rivedranno per lungo tempo, dicono, ed è probabile che non si rivedranno mai più, quindi quello che deve essere detto sia ora o mai più.
Si erano conosciuti negli anni trenta quando Mr Stevens maggiordomo integerrimo di Darlington Hall assunse Miss Kenton come governante.
Gli anni che seguirono furono segnati da cene importanti, ospiti di riguardo e tutto il contorno doveva essere all’altezza e impeccabile.
Poi tutto finì.
Miss Kenton accettò una proposta di matrimonio e si licenziò.
La guerra terminò e Lord Darlington cadde in disgrazia per le sue frequentazioni con simpatizzanti nazisti.
Alla sua morte la casa venne venduta a un ricco americano.

Mr Stevens ha viaggiato una settimana prima di arrivare in quel paesino della Cornovaglia e sedersi su quella panchina.
Durante il viaggio ha avuto modo di pensare per la prima volta agli eventi della sua vita e, riaprendo i cassetti della memoria, le immagini del passato prendono forma diversa.
Non può fare a meno di interrogarsi sulla sua freddezza davanti alla notizia del matrimonio di Miss Kenton, e la sua sorpresa per quel pianto dirotto sentito dietro la porta di Miss Kenton la sera stessa.
Mr Stevens non sa cosa aspettarsi da quell’incontro ma sa che lei gli ha scritto più volte del suo matrimonio infelice e forse, con Darlington Hall che prenderà nuova vita, lei potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di tornare.
Ora si trovano su quella panchina, sono passate alcune ore da quando si sono visti.
Ora o mai più.
Lui le chiede se è infelice.
Lei risponde che sì, all’inizio lo è stata, perché si era ritrovata in un matrimonio non voluto, perché tutto era partito come uno stratagemma per farlo arrabbiare, scuotere; poi si ritrovò realmente sposata.
Poi col tempo, con la nascita della figlia, si era abituata alla presenza di quell’uomo e ora poteva dire di amarlo.

Mr Stevens sente che il suo cuore si sta spezzando.
I tasselli della memoria si stanno ricomponendo ridando a quegli eventi del passato una nuova forma: il suo rigore, l’orgoglio di lei, non hanno permesso che gli schemi che i loro ruoli gli avevano assegnato, saltassero.
E ora l’orologio del tempo non si può riportare indietro.

L’autobus è arrivato, si salutano.

“La giornata è stata lunga, irta di ostacoli, scandita da scelte giuste e sbagliate, da quello che poteva essere se allora eravamo entrambi pronti.
La memoria continuerà a ripresentare il conto; ci dovremo convivere e trarre il meglio che viene da quel che resta del giorno.”

Le ferie della Persona METABOX è un momento di riflessione, uno spazio temporale durante il quale la sensibilità viene espressa in un luogo fisico denso di vissuti nel quale la Persona METABOX appoggia per trenta giorni le sue storie che sono poi anche le nostre.

Alberto Guizzardi