Made in Japan | Claudia Vanti

Mi manca il Made in Japan.
Mi manca come qualcosa che per diversi anni ha accompagnato culture e sottoculture, pop e avanguardia, ed era lì, un dato di fatto: il Giappone era “cool Japan”, non più un paese di imitatori senza fantasia nell’immaginario dei nostri genitori ma la punta della sperimentazione intellettuale o selvaggia, di nicchia o mainstream, senza differenze.

Dagli ’80 in poi, sicuramente fino all’inizio degli anni ’00, prima la moda, poi il pop, lo stile di vita, il design e la legittimazione della cultura otaku, i manga e gli anime ci hanno influenzato, ispirato e rassicurato che spirito ludico e espressione concettuale potessero convivere benissimo.
Per non parlare di antico (i templi, i giardini zen – anche in versione tascabile – i kimono e gli obi, i ciliegi e la carta di riso) e futuro (l’elettronica, i videogames, i treni monorotaia, i quartieri commerciali aperti 24 ore su 24 – ok, sui diritti dei lavoratori il Giappone non è mai stato fortissimo, ecco).

È cominciato tutto con le sfilate di Yohji Yamamoto, Comme des Garçons e Issey Miyake a Parigi, nei primi anni ’80, non che fossero proprio i primi creatori giapponesi ad apparire sulla scena, anzi già dagli anni ’70 Kenzo aveva base proprio a Parigi, seguito dal talento immaginifico di Kansai Yamamoto, e avevano un discreto successo, Kansai anche per i suoi legami con David Bowie e il suo “love affair” con la cultura giapponese. Ma Comme des Garçons e gli altri ribaltavano le strutture dell’abbigliamento occidentale, decostruivano i capi per poi creare delle forme inedite. Inedito, per noi, era soprattutto il modo di rapportarsi al corpo.

Apparentemente su un versante opposto il pop sintetico e colorato di Pizzicato Five e della Shibuya kei (scena di Shibuya): l’effetto fu quello di un estraneo che ti entra in casa, fruga nella tua collezione di dischi, scopre cose che avevi dimenticato e anche di cui ti vergogni abbastanza, poi ti assembla tutto in un mix folle che ti piace moltissimo.
Indie britannico, krautrock, beat, colonne sonore italiane, chanson francese e boh, probabilmente molto altro. Un pop postmoderno e spudorato, creato sì sulle collezioni di dischi, ma evidentemente molto colto.

Ancora una volta decostruzione e ricostruzione.

Si potrebbe andare avanti a lungo, con un design che abbiamo cercato di inserire anche in spazi non propriamente pensati per un’estetica tanto minimalista e sofisticata, ma la democratizzazione dei prodotti targati Muji ha portato ovunque almeno qualche suppellettile.

Non è che tutto questo sia scomparso, anzi: le generazioni di stilisti si susseguono,
Nendo firma praticamente centinaia di oggetti d’arredamento e allestimenti in tutto il pianeta e, a livello ludico, il successo eclatante di Pokémon Go direi che possa essere sufficiente.

Ma ho l’impressione che sia diventata routine, che la frammentazione generale degli input e delle immagini a cui siamo sottoposti (ma che per me va comunque benissimo) sia depotenziante, livelli tutte le suggestioni e qualcosa inevitabilmente si perda.
I nippofili ovviamente esistono ancora, gli amici che a Parigi ti trascinano per la quindicesima volta nel negozio di Comme (
54, Rue du Faubourg Saint-Honoré) o in pellegrinaggio davanti alla vetrina rosa della profumeria, peraltro bellissima (23, Place du Marché Saint-Honoré), mentre tu vorresti correre a cercare l’ultima felpa di Vetements che non puoi fare a meno di vedere (forse), ma si è persa l’eccitazione della scoperta, la benevolenza che accompagnava anche il look più improbabile di una qualsiasi Shibuya girl e, in fondo, anche il sushi…

Assuefazione o troppe cose da metabolizzare, ma insomma, il “cool Japan” mi manca, anche se c’è ancora molto da scoprire.
Il pop però forse è un po’ sparito davvero.

Claudia Vanti