L’(in)sostenibile consapevolezza del mio armadio
 | Claudia Vanti

Finché ci siamo limitati a schivare le borse “ecologiche” (cioè, di plastica) di Stella McCartney è andata bene, in fondo lei è sempre stata un po’ massimalista e in senso non proprio simpatico: cruelty free, d’accordo, ma il catering only vegan alle sfilate…insomma (per chi ci è capitato).
Poi si è evoluta, continua a usare finte pelli in pura plastica ma almeno senza poliuretano, che, si sa, da smaltire è quasi impossibile.

Però adesso anche da Hermès è l’ora delle alternative vegane alla pelle naturale, sostituita da derivati dei funghi.
Niente panico, per Hermès si parla di un solo modello di borsa – la Victoria, quella che prende il nome dalle cascate al confine fra Zambia e Zimbawe – che sarà prodotta in futuro anche nel materiale di origine vegetale, affiancata dalle consuete versioni in pelle.
Quindi tutta la gioia perversa riposta nel sognare accessori o capi di abbigliamento di lusso estremo e con un tocco di immoralità resterà inalterata, per quanto ormai il sasso sia stato lanciato e non si tornerà indietro.
Fortunatamente – per certi versi –  sebbene con un po’ di auspicabile realismo che trattenga dall’abbracciare entusiasticamente qualsiasi materiale gabellato come sostenibile mentre a volte è solo un derivato chimico pressoché indistruttibile (per l’ambiente circostante, ma distruggibilissimo nell’arrivare al decadimento estetico-qualitativo).

Di fronte a un armadio che contiene stratificazioni di capi a partire dai primi anni del ‘900 (anni di assoluta inconsapevolezza ambientale) a praticamente fino l’altro ieri, capi realizzati a volte in pelle, pelliccia, seta
12, 16 e anche 40 momi (nessuno che pensi mai ai bachi), colori fluo che inquinano come l’Italsider (ok, ma la gonna è di Comme des Garçons), e finiture metalliche che gridano “Nickel” solo a guardarle, ho solo un argomento da contrapporre: l’unico prodotto sostenibile al 100% è il vintage, e lasciare tutte queste cose al chiuso dell’armadio sarebbe un vero spreco, in molti sensi.

Claudia Vanti