Liasons “dangereuses” | Claudia Vanti

A ottobre scorso, nel giro di pochi giorni, due immagini uguali e contrarie sono emerse dall’immenso magma di visioni infinite e indefinite: la sfilata di Balenciaga per la P/E 2023 (1 ottobre)  e l’ingresso nel Parlamento italiano di Aboubakar Soumahoro. Uguali per efficacia di comunicazione e forse anche motivazioni. Contrarie, in teoria, ma non lo so più, probabilmente non è così semplice da definire.

Ma andiamo con ordine, 1 ottobre.
A differenza di molti creatori che nel post (post?) pandemia hanno pensato di lanciare messaggi ottimistici sul genere di “La bellezza ci salverà” (quale bellezza? Chi salverà? E – soprattutto – come, di grazia?), Demna ha pensato bene di farci apprezzare il presente in tutta la sua infausta complessità.
Disastro ambientale con conseguenze inimmaginabili, crescenti diseguaglianze economiche, migrazioni, il ritorno del fascismo, una reale minaccia di guerra nucleare.
Tutto esposto nel suo show post-apocalittico, cercando, probabilmente, una reazione, un fremito o almeno un’alzata di sopracciglio.
La stagione precedente (fine febbraio 2022, a pochi giorni dall’invasione russa dell’Ucraina) era stata ricoperta dalla neve e spazzata da un vento fortissimo; ora la neve, sciogliendosi, si è trasformata in fango, e infatti sul set di Balenciaga 2023, allestito dall’artista spagnolo Santiago Sierra, c’erano letteralmente tonnellate di fango, ammucchiate ai lati della passerella (cioè, del sentiero) e create come da esplosioni di bombe al centro.

Demna, cosa notissima soprattutto appunto da febbraio scorso, ha avuto la sua esperienza con la guerra e ha definito questo come “uno show molto personale”.
C’erano anche abiti da sera – sopravvissuti all’esplosione o all’inondazione – ma c’erano soprattutto pantaloni cargo, giubbottoni, felpone, giacconi (l’accrescitivo non è casuale) e scarpe imbrattate di fango. Affondate, direi.
Il fango, un inzaccheramento sacrilego per gli standard del lusso, e usare la moda per commentare le crisi che ci affliggono o fare critica sociale è una faccenda complicata.
Ma è lo stesso principio dell’inside job, oppure semplicemente un lavoro fatto guardandosi attorno, e non con ottimismo.
Il risultato di quello sguardo è meno condivisibile se non condividiamo le motivazioni e gli scopi (vendere) di chi lo fa?
Domandona.  A me i processi alle intenzioni in generale non piacciono.

Altri stivali, altro fango, 13 ottobre: Aboubakar Soumahoro, deputato neo eletto si è presentato per la prima seduta alla Camera indossando un paio di stivali da lavoro sporchi di fango.   Soumahoro è nato in Costa d’Avorio, è arrivato in Italia e per molti anni come sindacalista si è impegnato in particolare per i diritti dei braccianti del sud Italia. Indossare degli stivali da lavoro all’apertura dei lavori del nuovo Parlamento è stato «un simbolo delle sofferenze e speranza del Paese Reale che entra con me alla Camera per legiferare – in memoria di chi è morto di lavoro, chi è discriminato e chi ha fame».

E poi c’è la foto.
L’immagine, rilanciata ovunque, è stata anche un’operazione di comunicazione fortissima, sincera ma esteticamente irresistibile, sia quella in solitaria con il pugno alzato davanti al portone di Montecitorio, sia quella davanti a un gruppo di persone in una sorta di “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo reloaded.
Nessun processo alle intenzioni qua, nessuno ci ha provato, però resta il fatto che quelle foto sotto la pioggia con giacca, cravatta stretta e stivali di gomma sono a metà fra l’editoriale di moda e una comunicazione di un’efficacia che a sinistra (ma non solo) se la sognano da sempre pur nella rassegnazione di sapere che non ci riusciranno mai.

E quindi?
E quindi le icone possono avere qualsiasi origine o motivazione e l’impatto visivo può essere raggiunto anche da chi non lo cerca esplicitamente, però se se ne comprendono le implicazioni e le connessioni che questo può creare…beh, perché no?, perché non approfittarne?
E pazienza se qualcuno rimpiangerà i paletti e gli aut aut.

Claudia Vanti