Hotel Vienna | Alberto Guizzardi

“Dolce Vienna tu, sei un peccato di gioventù…..” cantava mio padre sulla seggiovia che ci portava sulle piste da sci quando ero ragazzino, almeno come lo ricordo io, ma forse il tempo mi ha fatto rielaborare quel testo che probabilmente non era proprio cosi.
L’originale “Wien Wien” venne poi cantata, sempre su richiesta di mio padre, da un cantore austriaco munito di fisarmonica, in quelle osterie storiche che loro chiamano Wiener Beisel.
Era il capodanno dei miei 16 anni, ero molto introverso e ancora viaggiavo con i miei genitori.

Se a un nome colleghiamo una sensazione io a Vienna associo quella del ricordo, di un passato che non c’è più.
La memoria e il tempo lavorano di concerto per dare al nome di un luogo un significato che è tutto nostro, come aveva ben descritto Marcel Proust nel capitolo finale de “La Strada di Swann” quando i nomi dei paesi e dei villaggi scatenano l’immaginazione del Narratore.
Vienna è per me è la città dei libri che mi hanno formato negli anni 90, quelli di Arthur Schnitzler e Stefan Zweig letti nelle edizioni Adelphi di colore rosa e blu; è la città dell’opera mondo di Robert Musil “L’uomo senza qualità” letto avidamente sotto l’ombrellone di una spiaggia romagnola all’epoca per me così ostile.

È quel “ Mondo di Ieri” così ben raccontato da Zweig nella sua opera più sentita, un mondo dove la gente vive nell’inconsapevolezza di un declino che l’iceberg della prima guerra mondiale frantumerà e quello della seconda ne finirà il lavoro.
I nomi di luoghi possono stimolare la memoria nei modi più disparati, così spesso mi ritrovavo a canticchiare la canzoncina della seggiovia quando, nelle sere estive a Riccione , ritornando a casa dalle passeggiate serali mi imbattevo nell’Hotel Vienna.

Proprio come il nome della città, l’hotel mi provocava la sensazione di un luogo fuori dal tempo, con quella struttura bianca e gli scuri verdi, i più dei quali sbrecciati, gli alberi enormi e poco curati che avvolgevano l’albergo fino quasi a inghiottirlo.
Anche le orchestrine che suonavano nei giorni di festa davano un’ impressione d’antan e gli stessi clienti sembravano ancora in attesa di una carrozza che non sarebbe mai arrivata.
Poi l’Hotel Vienna ha chiuso e si è portato via il mondo di ieri lasciando che la natura e il tempo facessero il loro corso; la muffa ha invaso il muro di cinta, l’intonaco si è scrostato, i vandali hanno divelto porte e finestre e infine l’epilogo: è stato abbattuto non lasciando più alcuna traccia della sua esistenza.
L’effetto visivo ora è straniante perché in mezzo agli alberghi pronti a ricevere i turisti di una nuova estate ci si trova davanti a un campo zollato che sembra pronto per essere seminato; non sarà certo la sua destinazione considerando il valore economico dei terreni edificabili a Riccione, ma l’idea di una semina metaforica mi è piaciuta, i cicli si chiudono e se ne aprono altri.

E ora tornando verso casa, canticchio “Vienna” degli Ultravox:
“The image has gone, only you and I
It means nothing to me
This means nothing to me
Oh, Vienna”

Alberto Guizzardi

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