Gucci Boi | Claudia Vanti

Il 15 settembre negli Stati Uniti (in Italia arriverà fra qualche mese) è stata rilasciata la quarta e conclusiva stagione di Atlanta, serie di culto di FX/Disney Plus: una buona occasione per scrivere dei nuovi look di Earn e soci.

Sulla “deriva moda” delle serie tv ormai si potrebbe istituire una rubrica a parte, outfit che danno molti punti di distacco a stylist ed editorialisti li si può trovare praticamente ovunque, ultime serie in ordine di apparizione Chloe (Prime Video) che ha elevato a status di look miracoloso improbabili abitoni a fiori (stupendi), e Irma Vep (HBO/Sky), che questa connessione la rivendica in ogni singola inquadratura e nella collaborazione con Nicolas Ghesquière di Louis Vuitton.
Ma Atlanta merita un discorso a parte, sia perché nella terza stagione l’introduzione della componente fashionista avviene in modo clamoroso, seppur mostrato come un dato di fatto che non necessita spiegazioni, sia perché questo aggiunge un tassello che si può estendere a tutto il mondo hip hop, per il quale marchi sportivi e i brand di lusso sono sempre stati fortemente identificativi, tanto per i musicisti e rappers quanto per i fans e le crew, almeno a livello aspirazionale,
E già nell’epoca della nascente controcultura, alla fine degli anni ‘70, molto prima della consacrazione commerciale.

Prima di tutto: Atlanta è un capolavoro.
Un capolavoro di scrittura (lieve e profondissima) che parla di razzismo – quotidiano, endemico, inaspettato o banale – e un capolavoro di recitazione, perché le facce di Earn, Van, Darius e Paper Boi raccontano perfettamente quella cosa lì, il razzismo, con un disincanto feroce che lavora per sottrazione.
A volte basta un’occhiata.

La moda, dunque. Perché, quando ci sarebbe tanto altro da scrivere?

Perché nel secondo episodio della terza stagione (uscita in Italia a giugno), mentre ci troviamo nel pieno del tour europeo di Paper Boi, ad Amsterdam, vediamo In azione, oltre a Earn, quelli che Highsnobiety (magazine di riferimento per lo streetwear recentemente acquisito da Zalando in qualità di consulente strategico) ha immediatamente definito i nuovi “Fashion Bros”, Paper Boi e Darius: evidentemente nel periodo in cui non li abbiamo visti, nel passaggio tra una stagione e l’altra e durante il viaggio attraverso l’Europa hanno trovato il tempo per entrare in una boutique Gucci, e uscirne con molti capi acquistati.

L’accettazione da parte di Paper Boi di appartenere a pieno titolo allo show business e di cercare di raggiungere la vetta passa anche per la cura del proprio guardaroba, e questo è ciò che accade da decenni a molte star del rap attraverso un rapporto complicato ma sempre esibito con i marchi di moda e quelli dell’abbigliamento sportivo più costoso.
Per tornare all’esegesi del guardaroba di Paper Boi, lo vediamo dare l’addio a jeans e polo oversize in favore di giubbotti e cappotti Gucci e Burberry, giacche doppiopetto e t-shirt BAPE, mentre Darius (amico onnipresente) sembra molto fedele al marchio della doppia G indossandone anche cardigan e pantaloni della tuta.
Già alla fine della seconda stagione Alfred aveva indossato una semplice t-shirt nera con il logo Gucci ma ora può abbinarla a un guardaroba ampio, e questo cambiamento è dichiarato a partire dal trailer nel quale vediamo il rapper alle prese con un sarto, mentre Earn gli chiede se non sia preoccupato per la reazione della strada a questa nuova immagine.
La risposta di Al è laconica: “La strada?”

L’episodio è il 3×06, White fashion – titolo esemplare: un brand italiano con sede a Londra è incorso in qualche tipo di incidente, non specificato, a scapito della comunità nera, e Alfred, insieme ad altre celebrità e influencer non caucasic* è coinvolto in una sorta di riparazione/attestazione di buona fede da parte del brand e del suo stilista.
L’esito è tragicomico e amarissimo, e non per colpa della sola maison, ma le interazioni fra moda e hip hop anche nella realtà sono tanto scivolose quanto ambigue nelle intenzioni da più parti.
Il caso più famoso è di qualche anno fa, ma molte delle attuali strategie di comunicazione per “fare la cosa giusta” nascono proprio dalla sfilata della Resort 2018 di Gucci (un marchio, fra l’altro, imprescindibile per rapper e relative crew).
In passerella c’era un capo che molti subito identificarono come derivato da una giacca creata negli anni ‘80 da Dapper Dan, stilista di Harlem e riferimento dell’allora nascente iconografia hip hop. Da parte di Alessandro Michele, più che scuse arrivarono dichiarazioni di omaggio alla creatività di Dapper Dan – omaggio esteso alla reinterpretazione del capo “incriminato” – una creatività vivace e spregiudicata nel mischiare elementi eterogenei, compresi pattern e simboli delle griffe del lusso.
Dapper Dan ha sempre creato capi personalizzati – per atleti, stelle del basket e ovviamente gangsta rapper – rielaborando e mescolando tessuti e accessori logati Vuitton, Fendi e, appunto, Gucci… naturalmente senza autorizzazioni, il che nel 1992 determinò in parte la chiusura del suo primo negozio.
Negozio che poi, a chiusura dell’incidente del plagio/omaggio, è stato riaperto con il sostegno e la collaborazione proprio di Gucci, chiudendo un cerchio di implicazioni a ripetizione.
Imbarazzi e risarcimenti a parte, questo caso arcinoto non ha assolutamente intaccato la popolarità di Gucci presso la gente della “strada” citata da Al, tantomeno presso le comunità nere legate al mondo del rap.
È che al di là di tutte le considerazioni sul valore identitario, a partire proprio dai capi reinventati di Dapper Dan, sul bisogno di riconoscimento di uno status raggiunto anche economicamente, che genera riconoscimento e approvazione da parte dei fans e della comunità, le griffe, i loghi, i brand famosi sono segni sì di appartenenza, ma anche certificazioni del proprio ruolo.
E il denaro conquistato, quello che Al/Paper Boi getta a piene mani ai propri fans fuori dalla prigione di Amsterdam, è un mezzo per poter attingere liberamente a un immenso campionario in cui le medaglie da appuntarsi sul petto sono i loghi.

Triste? Amara constatazione?
Forse, ma le relazioni tra moda e contro/subculture esistono e si sono consolidate attraverso tutto il Novecento.
Non è semplice definire in maniera manichea dove finisca l’una o l’altra, e soprattutto se e quanto la moda abbia un effetto depotenziante rispetto alla carica dirompente e ribelle di movimenti come quello dell’hip hop.

Claudia Vanti