Cover and over again | Matteo Lion

Il mio amico Joyello Triolo tiene un blog musicale, fardrock, che seguo da anni.
Ho deciso di fargli una piccola intervista visto che è appena uscito il suo nuovo libro «Cover and over again» edito da Crac Edizioni. Nel testo prende in esame cento canzoni pop rese famose proprio dai loro rifacimenti.
Ad esempio lo sapevate che “Girls Just Want To Have Fun” di Cindy Lauper è la cover di un brano inciso da un certo Robert Hazard? E che “The Best” fu un flop per Bonnie Tyler solo qualche mese prima che Tina Turner la portasse al primo posto delle classifiche? Per caso anche a voi è capitato di inciampare su un oscuro brano di tali Curtiss Maldoon che sembra somigliare moltissimo a “Ray of Life” di Madonna per poi scoprire che si tratta proprio della sua origine?

Tiziano Ferro presentando il suo disco di cover ha detto: ” la cover è come i laser ai concerti: li abbiamo visti mille volte, ma piacciono sempre “. Sei d’accordo?
In effetti il paragone regge abbastanza, ma va fatto un distinguo perché Ferro si riferisce a quelle cover che sono nuove versioni di pezzi già noti e, in quel senso godono di un buon vantaggio rispetto a un brano nuovo perché il pubblico deve solo apprezzare le scelte di arrangiamento, senza dover anche assimilare qualcosa di nuovo.

Nel mondo della musica la parola cover può avere due significati: la copertina di un disco oppure la versione successiva di un brano originale. È come se la cover (in entrambi i suoi significati) sia qualcosa che da una forma diversa all’anima di una canzone. Intanto ti piace la parola e c’è un corrispettivo fedele in italiano?
Beh, i corrispettivi ci sono ma sono due, copertina e rifacimento. Se la prima è ancora largamente usata, la seconda sicuramente non la usa più nessuno tanto che praticamente la parola cover è entrata nel lessico italiano praticamente al servizio unicamente delle reinterpretazioni.
Non mi sono mai chiesto se la parola mi piace, frequento dischi e canzonette da talmente tanto tempo che l’ho sempre data per scontata.
Mi piace molto la tua visione di « nuova forma all’anima di una canzone » anche perché ritengo che sia fondamentale che la cover proponga proprio questo : un interprete deve capire il senso di una canzone e proporne una visione personale, che la renda di nuovo interessante. Altrimenti è karaoke.

Da qualche anno programmi come X factor, Amici e anche Sanremo hanno usato molto le cover. Anche cercando di far capire al pubblico il processo creativo di interpretazione per fare in modo che la cover rispetti l’originale ma serva anche per innestare le caratteristiche dell’artista che la interpreta. Però parallelamente tra YouTube e TikTok ogni giorno vengono pubblicate milioni di cover davvero poco necessarie. Come credi si evolverà il fenomeno cover.
Credo che sia solo una questione di maggiore facilità di fruizione. Voglio dire: molte delle cover che si vedono su YouTube o TikTok non sono altro che la versione « on line » di ciò che fino a qualche anno fa si faceva tranquillamente tra le mura domestiche, con la chitarra sul divano nel tinello. Oggi la chitarra è sostituita da meravigliosi dispositivi elettronici e plug-in da installare sul computer e la creatività di chi ama la musica s’è scatenata. Non so capire dove porterà tutto questo. Di certo mi viene sperare che molti di questi interpreti casalinghi prima o poi proveranno a misurarsi anche con la composizione e credo sia possibile che qualcuno di loro ce la faccia.
Nei talent show è piuttosto fondamentale che i concorrenti inizino proponendo delle cover, per giudicarli prima di tutto come interpreti, capire la loro direzione e vedere come sarà possibile allargare la visione generale del mestiere che intendono intraprendere. Ricordo benissimo che Marco Mengoni a X-Factor era completamente all’oscuro dell’opera dei Talking Heads, quando Morgan gli assegnò « Psycho Killer ». Era la prima volta che ne sentiva parlare. Ma si è impegnato, l’ha ascoltata, assimilata e con l’aiuto della produzione riuscì a farne qualcosa di suo. È una strada, certamente non a senso unico. Mi piace molto chi decide di mettere il suo linguaggio dentro a qualcosa che lo ha colpito e che gli appartiene. Avere una canzone del cuore e riuscire ad applicare una modalità personale per appropriarsene è molto difficile, puoi generare dei disastri ma se riesci a dare una dignità nuova a una canzone che ne aveva già una bella grossa, hai vinto.

Per quanto io ami davvero le cover e ne sia sempre alla caccia ritengo anche che il punto più basso della musica moderna sia rappresentato dalle cover band. Manca totalmente la creatività e la ricerca sostituita completamente dalla riproduzione fedele delle musiche, dei testi e a volte anche del look e delle movenze fino a sfiorare la parodia. Ma a giudicare da programmi come “Tale e quale show” pare che un pubblico per queste baracconate ci sia. Cosa ne pensi?
Quello delle cover band (o anche tribute band) è un fenomeno molto particolare perché coinvolge un settore dell’industria musicale ben preciso. Per dire: raramente queste band producono dischi. Lavorano nei locali e molto spesso funzionano perché sono formate da persone che suonano molto bene e che, per questo, riescono a guadagnarsi la fiducia del pubblico « occasionale », cioè quello che non è interessato al lato artistico ma solo a quello del puro intrattenimento.
Mediamente non li considero nemmeno degli operatori del settore. Una band che esegue solo cover, non ha risvolti artistici, non mi interessa. Come dici tu, non c’è creatività e, di conseguenza, nemmeno emozione. Vanno bene per il pubblico generalista, che si ferma a sentire una band solo se sente il motivetto che già conosce e… possibilmente identico a quello che ha sentito alla radio o alla TV.
Diverso il discorso per quelle band che fanno, sul concetto di cover, un vero e proprio lavoro di personalizzazione. Penso alle formazioni rocksteady che hanno costruito quasi tutto sulla conversione « in levare » di brani celebri. In Italia abbiamo i Bluebeaters ma nel mondo è un fenomeno molto seguito.
Anche altri progetti, sebbene a me interessino poco, come Nouvelle Vague o Senor Coconut usano le cover per produrre una linea artistica ben precisa che può non piacere ma rientra nel contesto di un progetto che esula da quello mero della riproposizione.

Tu sei anche un musicista. Volevo chiederti se hai eseguito delle cover e quale ricordi con più piacere. Oppure c’è un pezzo di cui ti piacerebbe fare la cover a modo tuo?
Per celebrare l’anniversario della nascita e della morte di David Bowie, l’8 gennaio è uscito un EP assieme al giovane musicista Lameba degli Agate Rolings con tre brani del Duca Bianco. Ma, e qui mi ricollego a quanto detto poco fa, anche io a un certo punto ho sentito l’esigenza di mettere in piedi una formazione che facesse cover. Erano i primi anni 2000, tempi in cui spopolava la musica easy-listening, lounge e cheesy-pop e assieme ad alcuni amici musicisti abbiamo assemblato un bel repertorio da portare nei locali. Sonavamo Henry Mancini, Burt Bacharach, Equivel, Dusty Springfield ma anche roba italiana da Mina a Johnny Dorelli, da Nino Ferrer a Piero Umiliani, tutti con arrangiamenti molto personali e tutti cantati in italiano (per le canzoni straniere che non avevano già un testo italiano, lo scrivevo io personalmente) Siamo andati avanti per qualche anno e poi ci siamo stancati: la mia indole e quella di altri componenti del gruppo era quella di scrivere musica e così nacque un progetto nuovo, Peluqueria Hernandez, che è ancora attivo e che deve moltissimo a quell’esperienza. Ora facciamo musica originale ma in concerto c’è sempre spazio per qualche cover. Ce n’è una in ogni disco che abbiamo fatto. Dal vivo funzionano bene e si amalgamano alla perfezione al nostro repertorio.
Tra le mie preferite c’è « La Martiniana », un pezzo di Andreas Henestrosa che abbiamo registrato nel nostro secondo disco con il featuring di Umberto Palazzo. Ormai quell’album ha dieci anni ma la canzone è ancora attualmente nel nostro repertorio dal vivo.
Prima di dirti quale pezzo mi piacerebbe fare, ti racconto una storiella, molto in tema: nel 1990 vidi a Bologna il primo concerto italiano degli R.E.M. A quel tempo non avevo una attività musicale perché la mia band (Morrowyellow) si era sciolta un paio di anni prima. Mentre ero sotto il palco a sentire gli R.E.M. successe che attaccarono « Ain’t No Sunshine » di Bill Withers, una canzone che amo. Mi voltai verso il mio amico Mauro e gli dissi: « voglio assolutamente mettere su una band per poter cantare questo pezzo! » Due mesi dopo entrammo nella formazione Le Madri della Psicanalisi, al primo concerto c’era in scaletta « Ain’t No Sunshine » e l’anno successivo eravamo in tour nei migliori locali e festival italiani. Ecco, forse per questa ragione « Ain’t no Sunshine » è la cover che ho fatto a cui sono più affezionato.
Per finire, non solo c’è una canzone di cui avrei sempre voluto fare una cover ma… addirittura l’ho appena fatta! Complice il disco di Sevdaliza, nel quale propone una sua versione di un pezzo pop siriano di Googoosh (Gole be Goldoon), ho pensato che avrei proprio voluto rifare a mio modo una vecchia canzone napoletana che amo fin da bambino, « Dicitencello Vuie ». Complice il lockdown e tutto il tempo libero in cui ci ha costretti a casa, mi sono messo al lavoro e l’ho registrata. Non avevo intenzione di pubblicarla ma ero talmente contento di averla fatta l’ho girata con molto orgoglio al mio discografico che ha voluto a tutti i costi farne un singolo. Esce tra qualche giorno. Promettimi che l’ascolterai.

Matteo Lion