Abbasso la Casa nella Prateria | Claudia Vanti

Ve li ricordate gli hipster?
In teoria la seconda ondata hipster, quella che ha avuto grandissimo successo attorno agli anni 2010 (la prima, quella non solo estetizzante, era nata negli anni ‘40 fra gli appassionati bianchi di jazz) dovrebbe essersi esaurita nello strabordante potere iconografico dello streetwear (un altro stile dato sempre come sul punto di esalare l’ultima sneaker  o l’ultima felpa e invece ancora presente sulle passerelle e soprattutto in strada), esaurita in un profluvio di meme, t-shirt ironiche e provocatorie, e battute sui risvoltini già da qualche anno.

Avremmo dovuto dire addio ai cappelli di paglia a tesa stretta, ai cardigan sulle felpe, alle camicie a righe distanziate, ai jeans a vita alta, ai baffi  arricciati o a manubrio, agli occhiali enormi dalle montature rétro (qualsiasi cosa voglia dire, decenni a caso), alle barbe “scolpite” (e magari ci colpisse un fulmine ogni volta che pronunciamo la parola “scolpito/scolpita”), alle camicie di jeans o a quadri e i mocassini, indossati con calzini corti e o alcune volte anche senza.

Invece no, non sono spariti, semplicemente sono cresciuti, sono diventati più adulti e hanno sostituito l’ennesimo concerto indie con il weekend in campagna con la famiglia: selfie su selfie in paesaggi bucolici vissuti in estrema rilassatezza e soprattutto con il dress-code giusto in una riedizione aggiornata dell’immaginario Mulino Bianco degli anni ‘80-’90.

Sono prevenuta, lo so, sono prevenuta forse anche per la reiterata visione di abiti in stile Laura Ingalls della Casa nella Prateria, un look che funziona molto soprattutto in campagna e soprattutto con 4-5 bambini e/o animali arrampicati addosso.
Le foto che ci consegnano i paladini del piacere della vita slow e agreste rimandano infatti a quadretti molto (molto) tradizionali, che vanno bene, per carità, come tutto e come qualsiasi altro stile di vita scelto o attraversato, ma alla fine non sono tanto diversi dalle iconografie di molti decenni fa.
Futuro dove sei.

Questa impressione mi è stata confermata dalla recente lettura di un romanzo di qualche anno fa, uscito in piena hipster era, Shotgun lovesongs di Nickolas Butler, e neanche tanto lontanamente ispirato al musicista Bon Iver: zero Sex Drugs & Rock and roll, ma tante coppie perfette, etero normate e donne felici di rinunciare ad ogni curiosità in favore di un bravo ragazzo conosciuto al college. In un considerevole scenario, questo va riconosciuto, fornito dal Wisconsin.
Per fortuna però nel romanzo e donne paiono almeno vestirsi in maniera sufficientemente contemporanea, malgrado l’allora già crescente successo degli abiti “fattoria”, stile da subito diffuso dal marchio “supertrend & must have Batsheva.

Lo stile è quello che in qualche modo ritrovo, con una sfumatura più inquietante, negli abiti delle adepte di una setta mormone integralista che si vedono nella docuserie Keep sweet uscita da pochi giorni su Netflix (e subito altissima in classifica in mezzo alle corazzate Stranger things e Peaky Blinders): un concentrato di orrori e sopraffazioni difficilmente descrivibili.

Ma suggestioni creepy-crime a parte, diciamocelo: gli abiti di Laura Ingalls non erano belli manco in tv, non fanno tenerezza e, a parte poche rare eccezioni, non torneremo a indossarli neppure dopo aver consumato la quarantesima birra, pur se obbligatoriamente artigianale, consecutiva.

Claudia Vanti