
La haute couture non è inutile, è uno spettacolo, pure migliore di decine di cinecomics Marvel e D.C. passati, presenti e probabilmente futuri, vista la qualità di ciò che hanno in cantiere per i prossimi due-tre anni.
Tra l’altro questa programmazione di film ad anni se non lustri di distanza è stucchevole e pretenziosa, almeno con una collezione di moda o una sfilata ce la caviamo con un massimo di sei mesi di anticipo.
La haute couture insomma è divertente, a prescindere dalla destinazione ai red carpet e a poche clienti ricchissime e ignotissime, e dalla sperimentazione di tecniche e forme.
Ma è divertente quando non è noiosa e francamente brutta come l’ultima edizione che si è svolta a Parigi la settimana scorsa.
Brutta, con pochi giri di parole: è vero, d’accordo, che mancavano tante maison importanti, alle prese con cambi di direzione artistica che hanno imposto un momento di pausa, vedi Dior, o Chanel ancora nel limbo che precede il debutto ufficiale di Mathieu Blazy a ottobre prossimo.
Però anche al netto di queste defezioni o transizioni il livello medio è stato veramente basso, “wow effect” tanto instagrammabile quanto scolastico, il “put in your face” degli studenti e che vogliono dimostrare di essere creativi e iconoclasti, così da far pensare che le nuove leve come Robert Wun (osannato, perché?, se il livello è quello delle impronte delle mani sul tessuto) e Germanier con le perline multicolor abbiano già finito di dire quel poco che avevano in un mix di effettacci che col design design hanno poco a che vedere.
Non un bello spettacolo, appunto, ma per il de profundis magari aspettiamo il prossimo giro, qualche sorpresa da Jonathan Anderson e, perché no, forse il ritorno di Givenchy con Sarah Burton che, senza annunciarla, di couture ne sta già facendo, capi speciali per copertine e performance.
Brava, piuttosto che farsi del male con un debutto su una scontatissima passerella meglio tastare il terreno e procedere con calma.
E poi c’è stato il saluto di Demna da Balenciaga, l’antropologo iconoclasta che ha rivoluzionato l’heritage di un marchio sobrio e chicchissimo con le felpe oversize e le sneakers a tripla suola, nella couture ha sempre dato il suo meglio creando un improbabile ma effettiva sintesi tra l’atelier e la contemporaneità.
Con l’ultima collezione prima del suo arrivo in veste di salvatore dell’ammiraglia Gucci, ormai vicina allo schianto sugli scogli, ha presentato una sorta di summa del suo lavoro precedente e un manuale di istruzioni per il suo successore sul tayloring e sulla definizione dei volumi dei capi.
A fare da sfondo, al posto della solita colonna sonora composta dal marito Loïk, i nomi di tutti i collaboratori che negli anni lo hanno supportato nel portare avanti il suo lavoro da Balenciaga, una lunghissima sfilza di nomi pronunciati dai diretti interessati che presumibilmente comprende tanto le sarte dell’atelier quanto gli addetti stampa e gli assistenti di studio.
Un’esposizione meno visibile ma più efficace rispetto alle grandi adunate che altri hanno già usato come scenografia, volti indistinti che si dimenticano in un attimo, le voci e i nomi hanno reso appieno l’idea di come la moda sia oggi sempre di più un esercizio collettivo.

CLAUDIA VANTI
Stilista eclettica, ha collaborato per anni con marchi del pret à porter italiano e internazionale come Ferré, Chanel, Hugo Boss.
Insegna Design del Prodotto moda, ha la passione del disegno e il sogno segreto di scrivere la sceneggiatura di una serie tv. Ovviamente sulla moda.