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Incredibile, è già il 18 febbraio!,
E, nell’ordine:
- Trump ha ribaltato il mondo ma non ha ancora invaso né la Groenlandia né il Canada! Abbiamo solo ancora 47 mesi della sua presidenza da superare ma intanto fin qua ci siamo arrivati e forse (forse) ce la possiamo cavare.
- Il Festival di Sanremo è finito e anche questa edizione l’abbiamo finalmente messa in archivio con le sue brutte canzoni, la sua brutta scenografia, le sue brutte battute e i suoi brutti vestiti.
E pure quando i vestiti non sono particolarmente brutti sono messi insieme a caso, alla disperata ricerca di un “effetto wow” che non c’è mai: troppo ansia di tutto, di farsi notare soprattutto, ma il “purché se ne parli” è finito da tempo, i cantanti vorrebbero essere riconosciuti e ricordati ma a loro spese lo fanno invece gli stylist a caccia di conferme in un celebrity system italiano quanto mai povero e irrilevante a livello internazionale.
Alla fine rimane una nebbia trash che non fa né ridere né distrae, una sagra che vorrebbe essere l’Eurovision ma al massimo è Nashville, con la considerevole differenza che il country almeno fino a tutto l’anno passato è stato estremamente di moda.
Il country ha fatto il giro insomma (Sanremo no), prima con la rivalutazione della musica e poi con l’estetica flamboyante degli space cowboys amatissimi dalla cultura drag.
E infine è arrivato il pop con le mascherine di Orville Peck e lo Stetson bianco di Beyoncé: un po’ al limite del mainstream senza ritorno ma sempre un passo avanti alla riviera dei fiori.
Forse, from riviera to riviera, tanto varrebbe giocare la carta “balera”, un festival più ruspante con meno pretese e meno stylist che si fanno chiamare “direttore artistico” mentre massacrano la reputazione di stilisti incolpevoli dell’uso scellerato fatto dei loro abiti (una volta che sono incolpevoli bisogna farlo notare).
Sarà un caso che i look più ricordati siano ancora quelli di almeno un paio di decenni fa, a partire da Loretta Goggi in tuta di Gianni Versace con Maledetta primavera su un palco di gusto parrocchiale con composizioni di fiori qua e là?
No, non è un caso, e quella è un’immagine scolpita nella memoria condivisa, come Anna Oxa con il cappuccio nero di Paolo Negrato (ma come ti permetti tu, Alessandra Amoroso qualsiasi, di copiare?) e Antonella Ruggiero in tailleur a scatola di Cinzia Ruggeri (la ripetizione è involontaria e necessaria).
Il problema non sono gli abiti e gli stilisti, ma la voglia di strafare, di nascondere le origini da festival sull’aia buttandoci in faccia un po’ di paccottiglia a caso: mantelli da Zorro e guanti per tutti, cappotti indoor e torso nudo, sai che novità, make up pesantissimi che non reggono le attese dietro le quinte, zeppe e plateau fuori tempo massimo e a rischio rottura di femore sulle scale facendo credere che slancino e alzino la figura (spoiler: no, anzi).
Mala tempora currunt, anche nella TV e nell’immaginario pop, quando tutto questo – i Trump e i mala tempora – saranno passati non ci ricorderanno come Weimar: loro almeno hanno avuto l’arte.
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CLAUDIA VANTI
Stilista eclettica, ha collaborato per anni con marchi del pret à porter italiano e internazionale come Ferré, Chanel, Hugo Boss.
Insegna Design del Prodotto moda, ha la passione del disegno e il sogno segreto di scrivere la sceneggiatura di una serie tv. Ovviamente sulla moda.