L’attesa di un (di)segno | Claudia Vanti

Chissà perché si dice “ingannare l’attesa”.

Rendere più sopportabile una situazione o una sensazione spiacevole” (Garzanti): dunque che cosa sarebbe “spiacevole”, il tempo impiegato ad aspettare o addirittura l’oggetto dell’aspettativa (almeno l’evento sia rapido e indolore!)? Difficile a dirsi, ma comunque sia pare che bisogni attuare un sortilegio, una qualche forma di rito ingannatore mentre si aspetta. Ma cosa si aspetta poi?

Ognuno attua le sue strategie, banalmente io mi metto ad osservare i dettagli nell’abbigliamento di chi mi circonda, cercando di scorgervi un qualsiasi filo conduttore.

In coda alle Poste come a teatro si può sempre trovare un elemento “seriale”, che in una sorta di codice matematico ristabilisca un senso delle cose in una sequenza ritmica che potrebbe piacere a Philip Glass.

Probabilmente niente di tutto ciò e vero ma mi piace pensarlo.

Recentemente, a teatro (off, super off, uno di quegli ambienti nei quali l’interesse per gli outfit è in realtà pari a quello di una ipotetica convention di stylist), ho individuato alcune notevoli combinazioni di righe e fiori: sciarpe a righe fatte in casa, collant e calzini a righe, t.shirt a righine mélange e maglione a rigone. Un evergreen ma con dei fiori qua e là: su un cappello, un orecchino…fiori nei capelli: bella l’idea, soprattutto con un cappotto pesante ma bruttina l’esecuzione, i fiori in questione sembravano presi da un costume da recita scolastica. No.

Adesso siamo nel mese delle sfilate e mi viene in mente che nelle inevitabili attese, insinuantesi pure in un calendario di appuntamenti fittissimi o anche sovrapposti, questo gioco riesce piuttosto bene con qualche dettaglio o accessorio, stagionale o inaspettato.

Spesso mi sono messa a contare i foulard con i teschi di un noto marchio anglo-franco-italiano – Alexander McQueen (non so perché ma mi fa molto “pre-Brexit), di solito con una media di 7-8 contando le diverse varianti colori.
Ne ho visti di più ad una presentazione del Fuorisalone durante la Design week, una dozzina abbondante, ma la manifestazione è più democratica della Fashion Week, e c’erano anche dei falsi.

Siccome non voglio neppure pensare che ci sia un deficit di fantasia preferisco scorgervi un riflesso di serialità matematiche, del resto la serialità e la cifra che ci contraddistingue da qualche anno a questa parte, dalla Biennale di Massimiliano Gioni ai convegni universitari e alle ovvie, dilaganti, serie tv
(Taboo di BBC1 la più wild and chic di queste settimane, scommetterei su un come back dello stile impero pre-vittoriano).
Sarà bello, bellissimo, individuare altre sequenze di segni. È un linguaggio, e neanche tanto oscuro.

Claudia Vanti